Cosa significa Riforma Gelmini

Come trasformare l’università in un’azienda al servizio delle imprese.

La riforma Gelmini, approvata il 30 dicembre scorso e trasformata nella legge n°240/10, costituisce il punto di arrivo dell’asservimento del sistema d’istruzione pubblico a uso e consumo degli interessi privati. Questo percorso, iniziato nel 1989 con la riforma Ruberti e passato attraverso le più famose Zecchino-Berlinguer e Moratti, prende il nome di “processo di Bologna”. Quest’ultimo prevede la standardizzazione dei modelli formativi in un sistema unificato che si riflette in un’omogeneizzazione delle ‘competenze’ trasmesse. In soldoni, ciò comporta che i lavoratori svedesi, tedeschi o italiani, divenuti oramai intercambiabili tra loro, competeranno ancor più ferocemente per accaparrarsi i sempre più scarsi posti di lavoro, a cui seguirà gioco forza un abbassamento dei loro (dei nostri) salari.

In realtà, il processo di Bologna risponde a interessi di classe ben precisi, dove allo sfornamento in serie di “esecutori” prodotti nelle università pubbliche, fa da contraltare la formazione di “progettisti” ben educati nei cosiddetti centri di eccellenza, il cui accesso è garantito a un manipolo di pochi eletti. Da un lato, infatti, la standardizzazione delle competenze in atto nelle università pubbliche plasma una manodopera sostanzialmente omogenea e facilmente sostituibile una volta entrata nei luoghi di lavoro, condannando in tal modo il grosso degli studenti (i lavoratori di domani) a un futuro di precarietà e sfruttamento. Non è un caso, infatti, che le possibilità di scelta fra diversi insegnamenti da inserire nei piani di studio siano state sostanzialmente eliminate, standardizzando programmi e insegnamenti. Dall’altro, la costituzione di pochi centri d’élite privati risponde alle esigenze delle classi privilegiate, cui solo i propri figli potranno averne accesso. Qui, le rette altissime non rappresentano alcun fardello per i futuri membri delle classi dirigenti, che anzi beneficeranno delle condizioni migliori per apprendere (laboratori, docenti migliori, strutture all’avanguardia, ecc.). È chiaro come tutto questo si risolva in una condanna per i primi e in un’eccellente risorsa per i secondi.

In breve, le ‘riforme’ dell’istruzione costituiscono solo un tassello delle politiche governative miranti alla precarizzazione del lavoro di molti e al mantenimento dei privilegi di pochi. Non è un caso che i tagli di spesa che ridimensionano le borse di studio e aumentano le rette d’iscrizione nelle università pubbliche, vadano di paro passo con il continuo foraggiamento (con i soldi del contribuente, sia chiaro) degli istituti scolastici e universitari privati.

In quel che segue, vedremo l’impatto concreto della riforma Gelmini sulle vite di noi studenti. In mancanza di una nostra reale opposizione, questa controriforma distrugge sistematicamente l’università pubblica, mentre asservisce quel che ne rimane agli interessi del mercato. […]

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Dalle rivolte sociali nel mondo arabo alla guerra “umanitaria”…

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La bolla universitaria negli Stati Uniti

Negli Stati Uniti andare all’università è sempre più costoso. E anche se ottenere un finanziamento per pagarsi gli studi è facilissimo, la laurea non è più una garanzia per trovare un posto di lavoro. Così il debito degli studenti aumenta.

Il Project on student debt, che valuta i costi dell’istruzione negli Stati Uniti, ha calcolato che nel 2009 gli studenti statunitensi si sono laureati con un debito medio di 24mila dollari. Nell’agosto del 2010 i prestiti agli studenti hanno superato le carte di credito come maggiore fonte di debito del paese, avvicinandosi a mille miliardi di dollari. Quando si parla del debito al consumo, i politici, sia democratici sia repubblicani, assumono subito un atteggiamento moralistico. Ma nessuno ha il coraggio di dire che l’istruzione universitaria è un cattivo investimento. La convinzione che una laurea rappresenta un vantaggio per la società americana ha permesso la crescita di una bolla dell’istruzione universitaria che adesso sta quasi per scoppiare.

Dal 1978 le tasse dei college statunitensi sono aumentate di oltre il 900 per cento, 650 punti più dell’inflazione. Per capirne meglio le proporzioni, basta pensare che l’aumento del prezzo delle case – la bolla immobiliare che ha mandato in crisi prima l’economia statunitense e poi quella mondiale – è stato solo di 50 punti rispetto all’indice dei prezzi al consumo. Ma mentre la fiducia degli studenti nell’istruzione universitaria è aumentata, quella dei datori di lavoro è diminuita. Secondo Richard Rothstein dell’Economic policy institute, al di fuori del mercato gonfiato della finanza i salari dei laureati sono rimasti fermi o sono diminuiti. La disoccupazione ha colpito in modo particolare i neolaureati, e dopo la recessione del 2007 è quasi raddoppiata. Il risultato è che la generazione più indebitata della storia americana non trova un lavoro che le permetta di estinguere i suoi debiti.

Per quale motivo, allora, i finanziatori continuano a concedere somme a cinque zeri a giovani che vanno incontro a uno dei tassi di disoccupazione più alti degli ultimi decenni e a un mercato del lavoro globale sempre più competitivo? Nel caso della bolla immobiliare, le banche si sentivano protette perché potevano trasformare i prestiti a rischio in titoli garantiti dai mutui ipotecari, facili da vendere in un mercato convinto che i prezzi delle case potessero solo salire. Combinando prestiti diversificati a seconda delle regioni (quindi, in teoria, distribuendo il rischio), le banche riuscivano a convincere le agenzie indipendenti di rating che i loro prodotti finanziari erano sicuri. Ovviamente non lo erano. Ma dato che non saremmo americani se non potessimo monetizzare il futuro dei nostri figli, nel settore dell’istruzione quei prodotti finanziari esistono ancora. Sono gli student loan asset-backed securities, o Slabs.

Gli Slabs sono stati inventati nei primi anni novanta dall’ex colosso del rifinanziamento dei mutui Sallie Mae e si sono diffusi nell’ambito dell’ondata di asset-backed security (titoli negoziabili emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione) che ha raggiunto il culmine nel 2007. Nel 1990 circolavano Slabs per un valore di 75,6 milioni di dollari; al loro apice hanno superato i duemila miliardi. Il valore degli Slabs scambiati è passato da 200mila dollari nel 1991 a quasi 250 miliardi nel quarto trimestre del 2010. Però lo scambio di titoli garantiti da carte di credito, finanziamenti per l’acquisto di automobili e mutui fondiari è diminuito di circa il 50 per cento, mentre gli Slabs non hanno subìto la stessa sorte. Sono ancora considerati investimenti sicuri, tanto che i consulenti finanziari li vendono ai fondi pensione e agli anziani. Ai finanziatori non è parso vero di trovare un mercato secondario così fiorente, e non hanno avuto alcun problema a sostenere le spese fuori controllo degli studenti. Oltre a sapere che possono liberarsene facilmente, hanno anche un altro motivo per non preoccuparsi: le garanzie federali.

Con il programma federale di prestiti alle famiglie per l’istruzione (Federal family education loan program o Ffelp) che è appena stato chiuso, il tesoro degli Stati Uniti aveva deciso di garantire i prestiti privati agli studenti universitari. Questo significava che anche nell’eventualità di un crollo del mercato e di un’ondata anomala di insolvenze, il governo aveva previsto per legge il salvataggio delle banche che avevano erogato i prestiti. Come se non bastasse, nel maggio del 2008 il presidente Bush ha firmato l’Ensuring continued access to student loans act, che autorizzava il dipartimento dell’istruzione ad acquistare direttamente i Ffelp nell’eventualità di un calo della domanda.

Nel 2010, per compensare i costi della riforma sanitaria, Barack Obama ha interrotto il programma, che però era ormai diventato un affare da 60 miliardi di dollari all’anno. Anche se il tesoro ha smesso di garantire i prestiti, gli Slabs continueranno a essere concessi ancora per parecchio tempo. Quello che hanno scritto gli analisti di Barclays Capital nel 2006 sembra ancora valido: “Per questo settore prevediamo una crescita sostenuta del volume delle concessioni perché l’aumento dei costi dell’istruzione continua a superare quello dei redditi delle famiglie, delle borse di studio e dei prestiti federali”.

A scopo di lucro
Prestiti e costi sono entrati in quel tipo di circolo vizioso che si verifica quando prestare diventa remunerativo e al tempo stesso apparentemente privo di rischi: il continuo aumento delle tasse universitarie significa che gli studenti devono chiedere più soldi in prestito, più prestiti significano che le banche possono creare più pacchetti di titoli da vendere, più vendite significano che le banche hanno più capitale da prestare e quindi le università possono continuare ad aumentare i costi. Il risultato è che gli studenti sono indebitati per 800 miliardi di dollari, più del 30 per cento dei quali sono convertiti in titoli negoziabili, e il governo federale ne è direttamente o indirettamente garante.

Se tutto questo vi suona familiare, è normale, e i paralleli con il mercato immobiliare alla vigilia della crisi non finiscono qui. Il corrispettivo dell’aspetto più deteriore del mercato dei subprime sta nelle università private a scopo di lucro. Un tempo erano le disuguaglianze nell’istruzione primaria e secondaria a impedire a una grossa fetta della classe lavoratrice di affrontare i costi delle lauree quadriennali. Oggi istituzioni private come l’università di Phoenix o la Kaplan sono la risposta del mercato a questo problema.

Se per i corsi quadriennali il debito è alto, le cifre per le università a scopo di lucro che offrono corsi biennali sono apocalittiche: il 96 per cento dei loro studenti si accolla un prestito e dopo quindici anni il 40 per cento non è ancora riuscito a estinguerlo. Nel 2010 il Government accountability office ha avviato un’indagine sul loro funzionamento: gli agenti hanno finto di essere studenti e hanno scoperto che le quindici istituzioni a cui si sono rivolti usavano tecniche di reclutamento e finanziamento ingannevoli, mentre in quattro casi si trattava di vere e proprie truffe. È emerso che le università pagavano i reclutatori, li sceglievano sulla base di false credenziali, camuffavano i costi reali e incoraggiavano i candidati a mentire quando compilavano i moduli per il sussidio federale.

I corsi dei college a scopo di lucro non sono affatto convenienti come dichiarano gli spot televisivi, anzi sono quasi tutti più costosi delle loro alternative non profit. E per riuscire a vendere le loro lauree spendono un capitale in pubblicità. Come nel caso della crisi immobiliare, anche in questo settore è difficile capire quali sono le mele marce. Le istituzioni a scopo di lucro hanno subito cercato l’appoggio dei poteri tradizionali nel mondo dell’istruzione, della politica e dei mezzi d’informazione. Richard C. Blum, consigliere d’amministrazione della California University (e marito della senatrice californiana Dianne Feinstein), tramite la sua società di investimenti è anche l’azionista di maggioranza di due dei più grandi college a scopo di lucro degli Stati Uniti. La Washington Post Company possiede la Kaplan higher education, e costringe il Washington Post a pubblicare articoli con imbarazzanti apprezzamenti sulle università a scopo di lucro. L’università leader del settore, quella di Phoenix, è addirittura entrata in società con la rivista Good, finanziando un redattore specializzato nei temi dell’istruzione. Grazie a questi contatti, ai miliardi spesi in pubblicità e ai quasi nove milioni di contributi alle lobby e alle campagne elettorali solo nel 2010, nell’ambito dell’istruzione statunitense il settore delle università a scopo di lucro cresce più di ogni altro.

Il valore dell’istruzione
Cosa ci ha insegnato la crisi immobiliare? Cosa succede quando i ragazzi non possono pagare? Il governo federale raccoglie solo i dati degli studenti morosi nei primi due anni di restituzione del finanziamento, ma dal 2005 a oggi la percentuale di quelli che non riescono a pagare è aumentata ogni anno. Secondo gli analisti, solo il 40 per cento è in regola con i pagamenti, gli altri hanno chiesto una proroga o non pagano. L’anno prossimo il dipartimento dell’istruzione calcolerà il tasso di morosità sulla base di tre anni dall’inizio delle rate anziché due. Secondo le proiezioni, i risultati saranno sconcertanti: la morosità della classe 2008 passerà dal 7 al 13,8 per cento.

Poiché sempre meno studenti hanno il reddito necessario per restituire i prestiti (se non facendo altri debiti), la morosità di massa sembra inevitabile. A differenza di quanto è accaduto durante la crisi dei mutui, la risposta del governo a un’eventuale bolla dell’istruzione universitaria è già scritta nella legge. Se non può restituire un prestito garantito dallo stato, il titolare presenta una richiesta a una cosiddetta agenzia di garanzia statale, che a sua volta la gira al governo federale.

Il contributo federale è legato al tasso di morosità annuale dei clienti che si rivolgono all’agenzia: per i prestiti emessi dopo l’ottobre 1998, se il tasso supera il 5 per cento, il rimborso scende all’85 per cento del capitale e degli interessi maturati, se supera il 9 per cento, cala al 75 per cento. Ma i tassi delle agenzie di garanzia sono calcolati in modo da non riflettere il vero tasso di morosità degli studenti. Tra tutte le agenzie che hanno chiesto il rimborso federale l’anno scorso, nessuna ha raggiunto il fatidico 5 per cento.

Con tutte queste protezioni alle spalle, gli Slabs sono un investimento migliore di quanto lo fossero la maggior parte dei titoli garantiti dagli immobili. Il vantaggio del salvataggio preventivo è che spesso non è necessario: se gli investitori sanno di essere protetti dai rischi hanno meno motivo di innervosirsi quando i titoli scendono, e quindi è meno probabile che si verifichi un crollo speculativo. Nel peggiore dei casi è il governo che paga per mandare al college gli studenti e, a parte l’arricchimento dei finanziatori privati ​​e degli speculatori, questo non sarebbe un gran male se si crede nell’intervento dello stato, nell’istruzione gratuita o anche negli stimoli fiscali keynesiani.

Ma finora abbiamo esaminato solo una faccia della medaglia. Non c’è dubbio che gli studenti che prendono un prestito attribuiscono un grande valore all’investimento che vogliono fare. Se un ragazzo di 18 anni prende in prestito 200mila dollari, non può permettersi di fare un cattivo investimento. L’istruzione superiore può sembrare un terreno improbabile per una bolla speculativa simile a quella immobiliare. Mentre il prezzo delle case si basa su quanto i potenziali acquirenti in competizione tra loro sono disposti a pagare, si presume che il prezzo dell’istruzione universitaria sia legato ai suoi costi (fatta eccezione per le università a scopo di lucro). Ma il rapido aumento delle tasse universitarie non corrisponde al valore dell’istruzione: nessuno può sostenere che la qualità dell’insegnamento o il valore di mercato di una laurea sono aumentati di dieci volte negli ultimi quarant’anni. Allora perché le università aumentano le tasse così tanto e così spesso? “Perché possono farlo” è una risposta che può andar bene per i proprietari di casa che vogliono ottenere il massimo dai loro investimenti, o per le università a scopo di lucro che cercano di avere più soldi dallo stato, ma sembra una risposta terribilmente cinica nel caso dell’istruzione non profit.

Innanzitutto i soldi non vengono usati per migliorare la qualità dell’insegnamento. Come ha scritto Marc Bousquet, un ricercatore che studia il funzionamento dell’istruzione universitaria, in How the university works: “Se in questo momento siete iscritti a quattro corsi, ci sono buone probabilità che uno sia tenuto da una persona che ha un dottorato e che sul piano professionale, della preparazione e del servizio, non ha subìto i controlli normalmente riservati ai titolari di cattedra. A tenere gli altri tre corsi, invece, potrebbe esserci qualcuno non ancora laureato, che è stato scelto da un dirigente amministrativo e non dai professori di ruolo, che forse non pubblicherà mai nulla sulla materia che insegna, che è nella rosa di possibili candidati perché è disposto a lavorare per un salario da fame (spesso nell’illusione di poter prima o poi arrivare a una cattedra) e che non ha intenzione di rimanere in quell’università per più di tre anni”.

Obiettivi da manager
Questo non si può certo definire un miglioramento. Circa quarant’anni fa, quando le tasse universitarie hanno cominciato ad aumentare a ritmi esponenziali, le proporzioni erano invertite. Oggi una buona percentuale degli insegnanti precari che lavorano nelle università è formata da studenti appena laureati. Con i debiti che hanno, le università li possono costringere ad accettare un salario inferiore al minimo: sono una grande fonte di manodopera didattica a buon mercato. E poiché ci sono meno possibilità di ottenere una cattedra, i giovani che hanno un dottorato di ricerca, travolti dai debiti, possono solo accettare incarichi precari e salari tenuti bassi dal nuovo esercito di laureandi-lavoratori. Invece di produrre un corpo insegnante più preparato e più professionale, l’aumento delle tasse e dei debiti ha ottenuto il risultato opposto.

Ma se gli insegnanti ben pagati non sono né l’origine né i destinatari dell’aumento delle tasse, forse vale la pena di vedere chi c’è in cima alla piramide. Mentre gli incarichi didattici sono diventati sempre più precari e mal pagati, non si può dire lo stesso di quelli amministrativi. In passato, gli amministratori erano in genere docenti con qualche responsabilità in più. Oggi somigliano ai manager delle grandi aziende, e ricevono stipendi simili. Alcune università piene di spirito imprenditoriale hanno introdotto questo cambiamento, e le pressioni del mercato hanno costretto le altre a seguire l’esempio, pagando stipendi da capogiro per i tanto richiesti amministratori.

Anche nei college senza scopo di lucro gli amministratori di alto livello e i responsabili finanziari portano a casa stipendi a cinque o sei zeri, più vicini a quelli dei loro colleghi dell’industria che a quelli dei docenti. E mentre la percentuale dei professori che possono aspirare a una cattedra è diminuita, il numero dei dirigenti è salito alle stelle, in termini sia relativi sia assoluti. Se continuerà così, il dipartimento della pubblica istruzione calcola che entro il 2014 nelle università senza scopo di lucro che offrono corsi quadriennali ci saranno più amministratori che docenti. Un settore amministrativo più grande consuma anche una fetta maggiore dei fondi disponibili, quindi è comprensibile che negli ultimi quindici anni le quote di bilancio per i docenti e i servizi agli studenti siano diminuite.

Quando si assumono manager aziendali, si finisce per essere gestiti come un’azienda. Così, la gara per ottenere fondi dal governo e dai privati ​​è diventata l’obiettivo principale delle amministrazioni universitarie. Sia le grandi università statali sia i college privati d’élite non sono più interessati (se lo sono mai stati) a formare dei cittadini istruiti. Non si preoccupano quasi più nemmeno di formare la futura classe dirigente. Prevalgono, per usare le parole di Bousquet, “le istanze imprenditoriali, la vanità e le manie degli amministratori: digitalizzare il curriculum! Costruire la piscina/il campo da golf/lo stadio migliore dello stato! Portare più anime a Dio! Vincere il campionato interuniversitario!”. Questi costosi progetti fanno parte di un nuovo ciclo: le università-azienda devono essere competitive nel reclutare gli studenti che potrebbero diventare ricchi ex alunni, quindi devono spendere in attività extracurricolari interessanti, il che significa che hanno bisogno di più soldi, e quindi di più studenti che pagano.

I college a scopo di lucro non sono gli unici fissati con la vendita del loro prodotto. E se un corso di studi umanistici non riesce a dimostrare la sua utilità economica per l’università (che non può permettersi di avere “pesi morti”) e per gli studenti (che capiscono la necessità di una laurea spendibile sul mercato), allora subisce dei tagli: la strategia di gestione neoliberista per eccellenza. Gli studenti sembrano aver recepito il messaggio, perché la laurea in economia è diventata la più popolare del paese.

Quando nel suo discorso sullo stato dell’unione Barack Obama ha parlato della necessità di mandare più americani all’università, l’ha fatto nel contesto della competizione economica con la Cina, come se sfornare laureati equivalesse a produrre acciaio. Da quando il tirocinio non retribuito per accumulare crediti (in cui praticamente gli studenti pagano le tasse per lavorare gratis) sostituisce sempre più le ore di lezione, l’università commerciale borghese sta soppiantando l’accademia. Anche i genitori, comprensibilmente preoccupati, incoraggiano i figli ad avere innanzitutto un curriculum attraente. Per gli studenti era più facile credere che l’istruzione universitaria avesse un valore inestimabile quando non era in vendita.

Favole
Dunque le tasse sono aumentate vertiginosamente e la quota spesa per i docenti e i servizi agli studenti è diminuita, il valore di mercato di una laurea è calato e la maggior parte degli studenti non può più permettersi di godersi gli anni del college come un periodo di avventura intellettuale. Ma c’è un’altra cosa chiara: l’istruzione universitaria somiglia sempre più a una truffa.

Conosciamo le conseguenze della morosità per i creditori, gli investitori e i loro garanti del tesoro, ma che succede ai morosi? I proprietari di case che si sono trovati con un debito superiore al valore dei loro immobili potevano sempre liberarsene. Gli studenti non sono così fortunati: non possono liberarsi della loro laurea, anche se hanno preso in prestito più denaro di quanto possono guadagnarne nel mercato del lavoro. Gli americani sopraffatti da debiti normali (come quelli accumulati sulla loro carta di credito) hanno la possibilità di dichiarare bancarotta, e anche se è un processo doloroso che gli impedirà di ottenere credito in futuro, liberarsi di migliaia di dollari che non si possiedono non è sempre una cosa negativa. Gli studenti non hanno questa scelta. Prima del 2005 anche loro potevano usare la formula della bancarotta, ma la “legge per impedire l’abuso dell’istituto della bancarotta e difendere i consumatori” ha esteso l’inestinguibilità a tutti i prestiti per l’istruzione e alle carte di credito usate per pagare le tasse universitarie.

Oggi i debiti per l’istruzione sono diventati eccezionalmente punitivi. Non solo gli studenti non possono dichiarare bancarotta, ma i loro prestiti non hanno una scadenza e i creditori possono reclamare stipendi, contributi previdenziali e perfino indennità di disoccupazione. Se uno studente non paga, l’agenzia di garanzia, anche se è stata rimborsata dal governo federale, ha diritto a riprendersi tutto quello che può (anche se è già stata risarcita per la sua perdita), quindi è incoraggiata a perseguitare gli ex studenti fino alla tomba.

Quando è scoppiata la bolla immobiliare le conseguenze erano prevedibili, ma non prestabilite. Nel caso della bolla dei prestiti agli studenti la conclusione sarà la stessa, ma la forma è stata decisa in anticipo. In aggiunta ai miliardi che hanno speso in pubblicità, attività sportive, abbellimento dei campus e lussi vari, i college hanno beneficiato di un’opinione pubblica che considera l’istruzione universitaria un bene sociale supremo. Da quando i baby boomer hanno cominciato a fare figli, la laurea è sembrata la panacea per tutti i mali sociali, la metafora di un tipo speciale di successo.

Sentiamo ancora raccontare favole sulle persone sfuggite ai ghetti andando all’università, sulle lauree che garantiscono una vita soddisfacente e su un capolavoro dell’istruzione americana come la legge che consente di pagarsi gli studi con il servizio militare. Ma questi non sono veri modelli di vita, sono solo trovate pubblicitarie. E di solito sono accompagnate dal modulo per la richiesta di un prestito.

Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 898, 20 maggio 2011

 

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Un Passo Oltre…dal movimento contro l’università-azienda alle lotte nella metropoli 2010-2011

“Un passo Oltre…”: Questa pubblicazione si occupa del movimento contro la riforma Gelmini sviluppatosi in quest’ultimo anno (2010-11). Milano in movimento è il punto di partenza della nostra riflessione; le rivendicazioni esterne all’università, il contesto di crisi economica, guerra e rivolte che si dipanano sul contesto internazionale, sono il grandangolo attraverso cui leggiamo i cambiamenti che viviamo.
Il libretto esamina in che modo le lotte contro l’università-azienda si siano intrecciate con le mobilitazioni sviluppatesi nell’ultimo anno: dalle lotte degli immigrati contro la sanatoria truffa all’approvazione del “Collegato Lavoro” fino ad arrivare al ricatto Mirafiori imposto dall’accordo Marchionne.
Infine vi è una lettura nazionale e internazionale delle mobilitazioni sviluppatesi in altre città italiane e nel resto del mondo. Le testimonianze raccolte mostrano il filo che collega le rivendicazioni per un’università migliore alle lotte per una società migliore.

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Presentazione libro a Scienze Politiche: Il tenente Alvaro, la Volante Rossa

Nel corso dell’ estate del ’45 si formò la Volante Rossa con sede alla Casa del Popolo di via Conte Rosso a Lambrate. Il tenente Alvaro, nome di battaglia di Giulio Paggio era comandante di questo raggruppamento di giovanissimi ex partigiani, quasi tutti operai o artigiani.

Attiva nella Milano dell’ immediato dopoguerra (1945-1949), con le sue azioni armate, antifasciste e antipadronali ha incarnato i sentimenti di una “Resistenza tradita” perché non sfociata in una rivoluzione socialista.
In seguito alcuni dei suoi membri per evitare l’arresto, ripararono in Cecoslovacchia con l’aiuto del PCI. Là rimasero per decenni assieme ad altri 500 italiani rifugiati politici, in alcuni casi senza più tornare a casa.
Il libro narra la storia di questa comunità, le sue difficoltà ma anche lo spirito di solidarietà che l’ animava.

Martedi 19 Aprile 2011 ore 16:30 aula 11

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Incontro con gli studenti dell’università di Puerto Rico

Puerto Rico è la colonia più vecchia del mondo, invasa e colonizzata dagli spagnoli nel 1492 e successivamente per l’impero statunitense nel 1898. Gli Stati Uniti controllano l’economia, le risorse naturali e le frontiere dell’isola, convertendo cosi il paese in un punto militare strategico per la difesa dei propri interessi economici. Nel corso degli anni sono state costruite basi militari su tutto il territorio, perseguitati i movimenti indipendentisti incarcerando centinaia di militanti, e assoggettando la nazione, i lavoratori e le lavoratrici dentro un alleanza capitalista-colonialista tra l’impero, le multinazionali e il governo coloniale di Puerto Rico.

Tuttavia il popolo di Puerto Rico, costantemente oppresso e perseguitato politicamente, continua a lottare. Ne sono un grande esempio gli studenti dell’ Università di PR (UPR) che da diversi mesi stanno lottando contro l’innalzamento della retta universitaria e della privatizzazione dell’Università. Il governo ha imposto un aumento nel costo della retta annuale di 800 dollari chiamato “quota di stabilizzazione” per poter colmare un buco di cento milioni di dollari dovuto ad una mal gestione delle casse universitarie. Per mesi gli studenti, il corpo docente e il personale amministrativo hanno promosso una sciopero generale indefinito. Per evitare una possibile occupazione dell’università, il governo ha posto corpi di polizia in tutti gli ingressi per poter presidiare la struttura di giorno e di notte, sono stati eseguiti centinaia di arresti e abusi da parte delle forze dell’ordine. Gli scioperanti, però, all’ instancabile grido di “Tú dices que esta huelga es ilegal, pero ni tú ni nadie la va a parar” (tu dici che questo sciopero è illegale, però ne tu ne nessuno lo va a fermare)
continuano ad organizzare manifestazioni dentro e fuori dal campus.

La tre giorni che si terrà a Milano, con la partecipazione di compagni e compagne portoricane di diverse organizzazioni politiche dell’isola, vuole essere un momento di confronto e di scambio in cui analizzare la storia della colonia, il contesto politico attuale e i cambiamenti che la lotta degli studenti ha prodotto.

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Comunicato comune di diversi collettivi universitari

Durante l’ultimo senato accademico, svoltosi il 15 febbraio, è stata istituita una commissione disciplinare per valutare le sanzioni disciplinari da comminare nei confronti di 8 studenti, di cui 7 iscritti alla facoltà di Scienze politiche, sotto accusa per l’occupazione di uno spazio nel dipartimento di storia a Scienze Politiche.  Di fronte all’attacco gravissimo che da anni le politiche neoliberiste hanno condotto nei confronti dell’istruzione pubblica, così come dello stato sociale, oggi sotto accusa vi sono 8 studenti che insieme a migliaia di altri studenti e lavoratori si sono opposti concretamente alle politiche di aziendalizzazione e mercificazione dell’università.

Durante i mesi di dicembre e gennaio era stata occupata un’aula nel dipartimento di Storia in via Livorno dove gli studenti avevano creato il dipartimento autogestito, un luogo dove costruire un’università alternativa ai ritmi imposti dall’università, un luogo dove discutere e confrontarsi in maniera critica, ma anche un luogo dove studiare quando non si trovava posto in biblioteca. L’occupazione era nata sia per proseguire la mobilitazione contro la riforma Gelmini, sia per promuovere la partecipazione studentesca allo sciopero del 28 gennaio lanciato dalla FIOM. Di fronte a questa soluzione trovata dagli studenti il preside e il rettore non si sono limitati, come le precedenti volte, a chiudere fisicamente gli spazi occupati con grate o cancellate di ferro, ma da veri sceriffi hanno deciso di ricorrere prima alla DIGOS, che ha sgomberato l’aula 3 volte  identificando e denunciando alcuni dei presenti, e poi di utilizzare lo strumento della commissione disciplinare per sanzionare gli studenti.



  • Perché riappropriarsi di spazi e tempi all’interno dell’università è una necessità primaria? Da anni esiste un problema di spazi all’interno dell’università e, in particolare, dentro la facoltà di scienze politiche[1]. Lo sanno gli studenti che ogni mattina devono vagare a lungo in cerca di un posto al caldo per studiare; lo sanno gli studenti che sono costretti a seguire le lezioni seduti per terra, e quelli che vorrebbero svolgere o auto-organizzare attività alternative alla didattica imposta dai baroni. Un problema dunque non solo politico, ma anche strutturale, nella gestione degli spazi all’interno della facoltà.
  • Perché preside e rettore hanno deciso di ricorrere all’inquisizione? La motivazione è politica. Il chiaro intento è quello di colpire gli studenti che nei precedenti anni, durante le scorse mobilitazioni, hanno tenuto vive le lotte all’interno della facoltà. Non viene quindi recriminato soltanto l’atto in sé dell’occupazione di un’aula, ma un intero modus operandi, che va dalla contestazione di momenti come il carrier day (presentazione delle aziende in università) o l’open day (presentazione tanto idilliaca quanto falsa dell’università ai futuri studenti), al sostegno delle mobilitazioni esterne di lavoratori e immigrati, alla proposta di una socialità diversa.

Nulla di nuovo: ricordiamo come subito dopo l’Onda, una semplice partita di calcio all’interno del cortile della statale (la thecleva’s cup) sia stata trasformata in un pretesto per colpire attraverso le sanzioni quegli studenti che avevano partecipato alla mobilitazione dell’autunno appena passato.

Non è un caso: proprio nei momenti in cui le situazioni di lotta si moltiplicano all’interno delle  università, la santa alleanza tra potere baronale e potere politico si salda per spegnere il prima possibile queste situazioni che potenzialmente potrebbero radicarsi. Infatti, dopo l’Onda del 2008, il ministro dell’Interno Maroni propose di modificare gli statuti degli atenei universitari per inasprire le sanzioni disciplinari a carico degli studenti in mobilitazione, incentivando i rettori ad utilizzare questo strumento fino ad allora quasi mai adoperato. Per lo stesso motivo gli spazi recentemente conquistati in varie facoltà italiane sono stati sgomberati.

D’altronde l’università di Milano, sotto la reggenza del rettore Decleva, ha raggiunto dei pessimi traguardi in termini di repressione: quanto è avvenuto in questi anni nelle diverse facoltà di questo ateneo è infatti il risultato di una politica verticista di elevato inasprimento delle libertà d’azione di alcuni studenti. Non a caso negli ultimi anni tutte le istanze di critica e opposizione all’interno dell’università sono state gestite come un problema di ordine pubblico, con un ricorso quotidiano all’intervento delle forze dell’ordine. Il filo che collega la questura di Milano al rettorato di questa Università ha trasformato l’università in uno spazio pubblico ‘garantito’ per la polizia.  Ricordiamo che nel 2009 proprio per garantire ai neofascisti di azione universitaria di volantinare il loro appoggio alla riforma Gelmini, palesando così il loro carattere servile verso chi sta al governo e di ostilità verso gli interessi di gran parte degli studenti, il rettore autorizzò l’entrata della celere all’interno dell’atrio di festa del perdono. Da allora la presenza della polizia in università è diventata una costante.

Chiaramente, come nella realtà esterna, anche nell’università valgono le stesse logiche repressive: ad essere colpite sono quelle realtà difficilmente controllabili perché, evitando ogni logica di rappresentanza all’interno delle varie istituzioni, rifiutano qualsiasi compromesso o concertazione. Sono quindi queste realtà ad essere un reale problema per gli interessi di baroni e Confindustria. In quest’ottica non ci stupisce che preside e rettore legittimino solo gli studenti che si prestano al gioco delle parti in cambio di piccoli tornaconti personali, finendo per diventare dei perfetti burattini. L’unico comportamento che le istituzioni accademiche accettano all’interno dei loro feudi-facoltà è quello che costantemente si uniforma alle loro regole e sottostà alle loro decisioni.

 

  • La riforma dello Statuto e l’attacco ai diritti dei lavoratori e studenti: Negare oggi l’agibilità politica apre la strada ad un accordo Marchionne anche nelle Università.

In questi mesi verranno discusse le modifiche allo statuto d’ateneo per omologarlo ai dettami della riforma Gelmini e dei baroni, rettore Enrico Decleva in primis. Il rettore, infatti, vuole modificare in fretta lo statuto anche per i propri interessi personali in quanto, secondo lo statuto attuale, non potrebbe più prorogare la propria candidatura. Ma è quanto meno allarmante la strana coincidenza che in questi mesi si sta verificando tra l’attacco ai diritti dei lavoratori e l’attacco ai diritti degli studenti sul piano della libertà di dissenso:  a gennaio si è svolto il ‘libero’ referendum a Mirafiori, e subito dopo lo sciopero proclamato dalla Fiom per il 28 gennaio tutti gli spazi occupati nelle università italiane sono stati sgomberati, a Napoli,  Firenze, Milano e infine Pavia: quegli spazi erano stati occupati anche per promuovere la partecipazione studentesca allo sciopero. Se da una parte l’accordo Marchionne limita la libera scelta del sindacato, mettendo di fatto fuori legge i sindacati dissenzienti, i baroni nostrani vogliono mettere al bando gli studenti che in questi anni si sono opposti concretamente ai piani di smantellamento dell’università. Ed onde evitare qualsiasi saldatura tra l’opposizione degli studenti e quella dei lavoratori, i baroni nostrani istituiscono processi: qui si leva la maschera di chi come il preside Checchi da un lato cerca di aggraziare la propria posizione firmando lettere di solidarietà ai lavoratori della Fiom, e poi gestisce il dissenso interno alla stregua dei suoi compari maghrebini.

In tempi di legislazione ordinaria, la sacra alleanza tra il potere baronale e quello imprenditoriale può decidere di inserire dei criteri e delle norme che limitano la libera scelta di azione e di protesta da parte di studenti e lavoratori. Cosa ci aspettiamo da un consiglio d’amministrazione in cui saranno presenti almeno 3 membri esterni? Che appoggino le lotte dei lavoratori, o che introducano un accordo-ricatto simile a quello imposto a Mirafiori?

Nonostante le possibili sanzioni disciplinari e gli ultimi sgomberi il problema degli spazi e dell’agibilità politica nell’università persiste. Per questo riteniamo legittimo continuare con questa lotta che rappresenta la soluzione ad un problema reale e diffuso. Il problema che poniamo riguarda la manifestazione di un’esigenza non soddisfatta che nutriamo come studenti e lavoratori, e riguarda l’accesso e vivibilità dell’università in quanto spazio di libera crescita. Quello che ci propinano come università è un luogo asservito agli interessi del mercato: quando le aziende chiedono spazi all’interno delle facoltà il rettore stende il tappeto rosso, mentre agli studenti risponde solo con la repressione.

 

Assemblea studenti contro la commissione, Assemblea Studenti Scienze Politiche, Collettivo Città Studi, Demos S. C., Collettivo FuoriControllo

Per adesioni al comunicato scrivete a:

studenticontrolacommissione@autistici.org


[1] Fino al 2002 esisteva, a scienze politiche, un’auletta autogestita dagli studenti nonostante la facoltà fosse più piccola, ma il preside di allora riuscì a sgomberarla con il pretesto della ristrutturazione della facoltà. Nel 2007 l’Assemblea di Scienze Politiche si riappropriò di uno spazio vuoto e fino ad allora inutilizzato, ma il preside furbescamente affrettò i lavori per allargare il polo di calcolo e trasformare questo luogo nell’attuale polo sotterraneo. Lo stesso giardino che oggi è frequentato liberamente è stato riaperto grazie ad una lotta sostenuta dall’Assemblea per poterlo utilizzare (semplicemente, si iniziò a non rispettare il divieto di entrarvi).

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Si apre la Santa Inquisizione a Scienze Politiche. Smantellano l’università e processano chi protesta

Da anni esiste un problema di spazi all’interno della facoltà di scienze politiche.
Lo sanno gli studenti che ogni mattina devono vagare a lungo in cerca di un posto al caldo per studiare; lo sanno gli studenti che sono costretti a seguire le lezioni seduti per terra, e quelli che vorrebbero svolgere o auto-organizzare attività alternative alla didattica imposta dai baroni, sia nella forma che nei contenuti. Un problema dunque non solo politico ma anche strutturale della gestione degli spazi all’interno della facoltà.

Fino al 2002 esisteva un’auletta autogestita dagli studenti nonostante la facoltà fosse più piccola: il preside di allora riuscì a sgomberarla con il pretesto della ristrutturazione della facoltà. Nel 2007 l’Assemblea di Scienze Politiche si riappropriò di uno spazio vuoto e fino ad allora inutilizzato, ma il preside furbescamente affrettò i lavori per allargare il polo di calcolo e trasformare questo luogo nell’attuale polo sotterraneo. Lo stesso giardino che oggi è frequentato liberamente è stato riaperto grazie ad una lotta sostenuta dall’Assemblea per poterlo utilizzare. Infine qualche settimana fa è stato occupata al dipartimento di Storia, in via Livorno 1, un’aula utilizzata solamente una volta alla settimana per i ricevimenti dei professori di lingue. Come nel passato, anche stavolta gli studenti si sono posti come obiettivo quello di creare un luogo autogestito con iniziative culturali, cineforum, o semplicemente un luogo dove discutere e confrontarsi sulle questioni varie in maniera critica. L’occupazione è nata, infatti, in relazione allo sciopero del 28 gennaio lanciato dalla FIOM, per promuovere la partecipazione studentesca a quella giornata.

Di fronte a questa soluzione trovata dagli studenti il preside non si è limitato, come le precedenti volte, a chiudere fisicamente gli spazi occupati con grate o cancellate di ferro, ma da vero sceriffo ha deciso di ricorrere prima alla DIGOS, che ha sgomberato l’aula 3 volte, identificando e denunciando alcuni dei presenti, poi di utilizzare lo strumento delle sanzioni disciplinari.

Durante l’ultimo senato accademico, svoltosi il 15 febbraio, è stata istituita una commissione disciplinare per valutare quanto accaduto a Scienze Politiche. La commissione riporterà il verdetto in senato accademico che a sua volta deciderà le sanzioni da emettere¹.

Perché il preside ha deciso di ricorrere all’inquisizione? La motivazione è politica. L’intento è quello di colpire gli studenti che nei precedenti anni, durante l’onda contro la riforma “Gelmini” e durante le ultime mobilitazioni, hanno tenuto vive le lotte all’interno della facoltà. Non viene quindi recriminato soltanto l’atto in sé dell’occupazione di un’aula ma un intero modus operandi che va dalla contestazione di momenti come il carrier day (presentazione delle aziende in facoltà) o l’open day (presentazione tanto idilliaca quanto falsa della facoltà ai futuri studenti), al sostegno delle mobilitazioni esterne di lavoratori e immigrati, alla proposta di una socialità diversa attraverso le aperture serali -e notturne-  della facoltà.
Nulla di nuovo: ricordiamo come subito dopo l’onda una semplice partita di calcio all’interno del cortile della statale (la thecleva’s cup) sia stata trasformata in un pretesto per colpire attraverso le sanzioni quegli studenti che avevano partecipato alla mobilitazione dell’autunno appena passato.
Non è un caso: proprio nei momenti in cui le situazioni di lotta si moltiplicano all’interno delle  università, la santa alleanza tra potere baronale e potere politico si salda per spegnere il prima possibile queste situazioni che potenzialmente potrebbero radicarsi. Infatti, dopo l’onda del 2008, il ministro dell’Interno Maroni propose di modificare gli statuti delle facoltà per inasprire le sanzioni disciplinari a carico degli studenti in mobilitazione, incentivando i rettori ad utilizzare questo strumento fino ad allora quasi mai adoperato. Per lo stesso motivo gli spazi recentemente conquistati in varie facoltà italiane (Napoli, Firenze, Milano, Pavia) sono stati sgomberati.

Chiaramente, come nella realtà esterna, anche nell’università valgono le stesse logiche repressive: ad essere colpite sono sempre quelle realtà difficilmente controllabili perché, evitando ogni logica di rappresentanza all’interno delle varie istituzioni, rifiutano qualsiasi compromesso o concertazione. Sono quindi queste realtà ad essere un reale problema per gli interessi di baroni e Confindustria. In quest’ottica non ci stupisce che il preside legittimi solo gli studenti che si prestano al gioco delle parti in cambio di piccoli tornaconti personali, finendo per diventare perfetti burattini nelle mani di un apprendista burattinaio. L’unico comportamento che il preside accetta all’interno del suo feudo-facoltà è quello che costantemente si uniforma alle sue regole e sottostà alle sue decisioni.

Nonostante le possibili sanzioni disciplinari e gli ultimi sgomberi il problema degli spazi persiste: gli studenti non hanno luoghi dove studiare o mangiare e le aule rimangono ancora stracolme di persone. Per questo riteniamo legittimo continuare con questa lotta che rappresenta la soluzione ad un problema reale e diffuso all’interno della facoltà. Il problema è politico e quindi la risposta deve essere politica dal momento che quando le aziende chiedono spazi all’interno della facoltà il preside stende il tappeto rosso, mentre agli studenti  risponde solo con la repressione.

Note

¹In che cosa consistono e cosa comportano le sanzioni disciplinari? Secondo l’articolo 52 del regolamento dell’università esse sono “Infrazioni e comportamenti in grave contrasto con le disposizioni di cui sopra danno luogo a sanzioni disciplinari, graduate in relazione alla gravità dei fatti accertati, e cosi determinate: 1) ammonizione scritta da parte dell’autorità accademica competente (Preside di Facoltà o Rettore); 2) sospensione temporanea, di durata fino a sei mesi, dall’accesso a biblioteche, sale di studio o altri spazi di servizio dove si sia verificata l’infrazione, comminata dal Rettore; 3) sospensione temporanea dalla fruizione dell’attività didattica, di durata fino a sei mesi, estensibile ad un anno per i fatti che rivestano una particolare gravità, con conseguente perdita della frequenza ai corsi, ove richiesta, e esclusione dalle sessioni d’esame, comminata dal Rettore.”

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Aperitivo a Scienze Politiche Giovedì 17/02

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DIS-UMANA Università

Fuori le aziende dagli atenei, più spazi per gli studenti

Benvenuti nell’‘Isola che non c’è’, alias Università degli Studi di Milano. Mentre vengono tagliati corsi, ridotti i servizi e aumentate le tasse agli studenti, ecco spuntare i soldi per sponsorizzare le marchette all’ennesima agenzia interinale, stavolta tale Umana.

Dicono che lo fanno per noi, per aiutarci nell’inserimento nel mondo del lavoro. Peccato che il lavoro, per noi giovani, esista solo nella testa dei baroni che organizzano queste pagliacciate! Proprio ieri è uscita la notizia che il 29 percento dei giovani è disoccupato e anche coloro che hanno la fortuna di avere un lavoro sono pagati una miseria, stretti tra stage gratuiti, contratti farlocchi e precari (come quelli proposti da Umana e le sue consorelle) e mansioni scarsamente qualificate che certamente non rispecchiano il nostro livello di istruzione.

Ma per questi baroni culi di pietra che utilizzano l’università pubblica come se fosse il loro orticello privato (vero rettore Decleva?), tutto ciò non esiste.  Dall’alto delle loro migliaia di euro mensili, ci fanno sapere che il problema siamo noi che non sappiamo utilizzare le giuste tecniche comunicative o non possediamo abbastanza ‘appeal’ per fare colpo sui selezionatori del personale. O al più, ci dicono che loro stanno facilitando i meccanismi d’incontro tra domanda e offerta di lavoro: ma che anime pie!

Crediamo che sarebbe più sensato investire tempo e denaro (per inciso, il nostro) per rinnovare realmente l’università. Per creare un’università che non si appiattisca alle necessità di bassi salari ed erosione dei diritti dettate dalle imprese, ma che al contrario sia in grado di analizzare criticamente, agendo di conseguenza sul fronte politico, perché l’economia del nostro paese non ci offra che un futuro precario, sotto-mansionato e mal pagato.

Coloro che rifiutano la sottomissione dell’università pubblica ai diktat di Confindustria, occupando spazi che hanno la funzione di essere luoghi di socialità tra gli studenti – al di fuori delle logiche di mercato che regolano l’università – sono sgomberati e denunciati, come avvenuto in questi giorni agli studenti di Scienze Politiche. Il fatto di creare spazi che colmino il vuoto di luoghi di discussione critica e collettiva, spazi liberati dai baroni e politicanti di ogni risma che da trent’anni propagandano le virtù di un mercato che nella realtà scarica i suoi effetti sopra le nostre teste, è un buon motivo per scagliare la polizia all’interno dell’università.

Le istituzioni universitarie si comportano proprio come i parlamentari che fanno finta di criticare, trattando il malcontento dei ragazzi e delle ragazze e la mancanza di spazi studenteschi come se fossero una questione di ‘ordine pubblico’. Mentre su scala nazionale si utilizza la polizia per trattare l’’emergenza rifiuti’ (Terzigno), la disoccupazione giovanile e non (Roma, 14 dicembre) e la
negligenza della politica in seguito al terremoto di L’Aquila, nelle università si usa la polizia contro gli studenti che non si rassegnano all’idea di un’università che, invece di parlare dei problemi reali, apre le porte all’ennesima agenzia interinale (sinonimo di precarietà lavorativa per tutti noi) che tenta di venderci fumo, per di più di pessima qualità.

Assemblea Studenti di scienze politiche

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