Come trasformare l’università in un’azienda al servizio delle imprese.
La riforma Gelmini, approvata il 30 dicembre scorso e trasformata nella legge n°240/10, costituisce il punto di arrivo dell’asservimento del sistema d’istruzione pubblico a uso e consumo degli interessi privati. Questo percorso, iniziato nel 1989 con la riforma Ruberti e passato attraverso le più famose Zecchino-Berlinguer e Moratti, prende il nome di “processo di Bologna”. Quest’ultimo prevede la standardizzazione dei modelli formativi in un sistema unificato che si riflette in un’omogeneizzazione delle ‘competenze’ trasmesse. In soldoni, ciò comporta che i lavoratori svedesi, tedeschi o italiani, divenuti oramai intercambiabili tra loro, competeranno ancor più ferocemente per accaparrarsi i sempre più scarsi posti di lavoro, a cui seguirà gioco forza un abbassamento dei loro (dei nostri) salari.
In realtà, il processo di Bologna risponde a interessi di classe ben precisi, dove allo sfornamento in serie di “esecutori” prodotti nelle università pubbliche, fa da contraltare la formazione di “progettisti” ben educati nei cosiddetti centri di eccellenza, il cui accesso è garantito a un manipolo di pochi eletti. Da un lato, infatti, la standardizzazione delle competenze in atto nelle università pubbliche plasma una manodopera sostanzialmente omogenea e facilmente sostituibile una volta entrata nei luoghi di lavoro, condannando in tal modo il grosso degli studenti (i lavoratori di domani) a un futuro di precarietà e sfruttamento. Non è un caso, infatti, che le possibilità di scelta fra diversi insegnamenti da inserire nei piani di studio siano state sostanzialmente eliminate, standardizzando programmi e insegnamenti. Dall’altro, la costituzione di pochi centri d’élite privati risponde alle esigenze delle classi privilegiate, cui solo i propri figli potranno averne accesso. Qui, le rette altissime non rappresentano alcun fardello per i futuri membri delle classi dirigenti, che anzi beneficeranno delle condizioni migliori per apprendere (laboratori, docenti migliori, strutture all’avanguardia, ecc.). È chiaro come tutto questo si risolva in una condanna per i primi e in un’eccellente risorsa per i secondi.
In breve, le ‘riforme’ dell’istruzione costituiscono solo un tassello delle politiche governative miranti alla precarizzazione del lavoro di molti e al mantenimento dei privilegi di pochi. Non è un caso che i tagli di spesa che ridimensionano le borse di studio e aumentano le rette d’iscrizione nelle università pubbliche, vadano di paro passo con il continuo foraggiamento (con i soldi del contribuente, sia chiaro) degli istituti scolastici e universitari privati.
In quel che segue, vedremo l’impatto concreto della riforma Gelmini sulle vite di noi studenti. In mancanza di una nostra reale opposizione, questa controriforma distrugge sistematicamente l’università pubblica, mentre asservisce quel che ne rimane agli interessi del mercato. […]
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