dell’avvocato del lavoro laser, presso lo studio legale Giovanelli.
di portata pari all’attacco del 2002 quando c’è
stata la campagna per l’abolizione del’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Da allora le classi dirigenti hanno imparato la lezione e mentre nel 2002 sparavano con le corrazzate contro i diritti dei lavoratori facendosi notare, ora hanno usato i sottomarini per non farsi notare
mentre affondano l’art.18
consente al padronato italiano di compiere un salto di qualità nello
smantellamento dei diritti dei lavoratori: più che una controriforma, è
una vera e propria controrivoluzione, sia pure condotta in sordina.
L’attacco questa volta prende le forme di un lunghissimo testo che
conferisce “Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi
all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché di
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro
pubblico e di controversie di lavoro”.
Di tutto di più, insomma, ma è ovvio che il cuore del disegno è
costituito dalle norme in materia di lavoro: vediamole con ordine.
compromissorie: il delitto perfetto.
Ai giudici si comanda non mettere becco nelle “valutazioni tecniche,
organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al
committente”: dovrebbero quindi limitarsi a valutare l’aspetto formale
dell’operato padronale, senza considerare il merito delle questioni. La
norma esprime un principio già esistente, ma che qui trova un ulteriore
rafforzamento con la specificazione dei suoi campi di applicazione:
“instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali,
trasferimento di azienda e recesso”. Insomma, in tutte le vicende che
interessano un rapporto di lavoro, dalla sua nascita alla sua
cessazione, il datore di lavoro è … padrone.
La competenza dei giudici viene notevolmente ridotta anche nel caso
in cui il contratto di lavoro (individuale) sia stato “certificato”
dalle parti. Questa della certificazione non è di per sé una novità: lo
strumento era previsto anche dalla “legge Biagi” ma non aveva mai
trovato, finora, grande applicazione, anche a motivo del fatto che il
contratto, benché certificato, era pur sempre impugnabile dinanzi al
Tribunale. Ed ecco l’idea: cancellare a monte e preventivamente la
possibilità del lavoratore di rivolgersi a un giudice, consentendo alle
parti (cioè al datore di lavoro, che è l’unico ad avervi interesse – e
che interesse!) di inserire nel contratto individuale, attraverso lo
strumento della certificazione, una “clausola compromissoria” in base
alla quale ogni eventuale controversia inerente il rapporto di lavoro
verrà giudicata e decisa da arbitri invece che dal Tribunale.
La differenza, a tutto svantaggio dei lavoratori, è colossale: da un
lato, l’arbitrato è costoso e le spese dovranno essere anticipate per
metà da ciascuna delle parti. Ne seguirà che in molti casi il lavoratore
rinunzierà preventivamente a far valere i propri diritti, non potendosi
permettere di pagare o quantomeno non volendo rischiare di perdere del
denaro in caso di mancato successo. Il giudizio ordinario in Tribunale,
al contrario, è gratuito e spesso, per prassi, il lavoratore che dovesse
perdere la causa non viene condannato a pagare le spese legali del
datore di lavoro. Dall’altro lato, in caso di lodo sfavorevole sono
estremamente ridotte le possibilità di impugnazione: la tutela del
lavoratore viene anche per questo verso fortemente indebolita. Gli
arbitri – in caso di richiesta delle parti – potranno anche decidere
“secondo equità”, e quindi senza necessità di seguire se non “i principi
generali dell’ordinamento”: anche quando daranno ragione al lavoratore,
quindi, potranno scegliere di attenuare le sanzioni in deroga alle
norme di legge. Ad esempio – e l’esempio non è casuale, ma è
evidentemente ciò a cui pensava il Governo – potranno scegliere di non
garantire a un lavoratore illegittimamente licenziato la tutela reale
prevista dall’art. 18 dello Statuto, riconoscendogli soltanto un
risarcimento più o meno modesto.
Le modalità concrete di applicazione della norma sono demandate agli
accordi interconfederali o ai contratti collettivi di lavoro. È chiaro
che si procede a passi sempre più spediti alla definitiva spaccatura tra
sindacati “amici” (CISL, UIL e UGL, perlomeno al livello nazionale) e
sigle “nemiche”, e al tentativo di emarginazione della CGIL (per non
parlare dei sindacati di base). Non è un caso che il segretario generale
della CISL abbia espresso un parere tendenzialmente favorevole sullo
strumento dell’arbitrato. Del resto, i sindacati che andranno a far
parte dei collegi arbitrali saranno lautamente ricompensati: di fatto,
vengono comprati dallo Stato, in un contesto che ricorda sempre di più
quello corporativo del periodo fascista.
Per sicurezza, comunque, qualora non siano previste dai contratti
collettivi, le modalità di attuazione della nuova disciplina verranno
stabilite direttamente con decreto dal Ministero del Lavoro.
Sempre più precari.
Le novità in materia di decadenze e licenziamenti rischiano di avere
un impatto per certi versi ancora più disastroso.
Innanzitutto, diventa più complicata l’impugnazione: finora era
sufficiente qualsiasi atto scritto del lavoratore, senza formalità, nei
60 giorni dalla comunicazione del licenziamento; adesso viene introdotto
l’obbligo ulteriore di depositare il ricorso in giudizio, nei 180
giorni successivi, a pena di decadenza. È inutile sottolineare come ogni
onere aggiunto renda più difficile l’esercizio del diritto.
Ma il vero trabocchetto riguarda qui i lavoratori precari.
Per la prima volta, infatti, le decadenze che finora caratterizzavano
soltanto l’impugnazione vengono estese anche ai contratti a termine,
interinali (in somministrazione) e a progetto, e perfino nei casi di
trasferimento di azienda e di appalti farlocchi.
Ecco quindi che alla scadenza del contratto il precario dovrà
scegliere se fare causa all’azienda in men che non si dica, e bruciarsi
così ogni speranza di rinnovo, o attendere nella speranza di un rinnovo e
bruciarsi così per sempre la possibilità di fare causa all’azienda. Non
ci sarà da stupirsi se gli imprenditori useranno questa novità come un
ulteriore strumento di ricatto.
Ma non basta: anche nel caso in cui il termine dovesse essere
giudicato illegittimo, e il contratto convertito in tempo indeterminato,
viene ridotto il risarcimento che il datore di lavoro è tenuto a
versare. Il risarcimento, infatti, non coprirà più tutto il periodo
dalla scadenza del termine al ripristino del rapporto, ma sarà contenuto
tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione.
In pratica, il Governo interviene in modo chirurgico a eliminare gli
ultimi ostacoli alla precarizzazione del lavoro che la “legge Biagi” non
era riuscita a rimuovere, anche – occorre riconoscere – per
l’interpretazione che parte della magistratura aveva dato di quelle
norme.
Tanto per non farsi mancare niente, le nuove regole, una volta
entrate in vigore, si applicheranno anche ai contratti in corso di
esecuzione e perfino – quelle in tema di risarcimento – alle cause già
pendenti.
La vendetta di Atesia.
Dopo le numerose leggi ad personam, il Governo inaugura
anche la legge – ci si perdoni il neo-latinismo non proprio ciceroniano –
ad aziendam.
Non c’è altro modo per interpretare la norma che chiude l’intero
disegno di legge e che appare ritagliata su misura per la controversia
che oppone una cinquantina di lavoratori alla famigerata Atesia (che
oggi, tanto per ripulire la propria immagine, è ribattezzata Almaviva).
Un po’ di storia (che per fortuna conosciamo meglio del latino):
nell’estate 2006 Atesia, allora il call centre più grande d’Europa con
oltre 3.500 operatori, tutti co.co.pro., venne condannata ad assumere
con contratto a tempo indeterminato tutti i lavoratori e a versare tutte
le differenze retributive e contributive, oltre che a pagare una maxi
multa per le numerose irregolarità. Con la (colpevole) complicità dei
sindacati, venne raggiunto un accordo in base al quale gli addetti
sarebbero stati assunti a tempo indeterminato con contratti part-time a
orari flessibili e con uno stipendio da fame, a condizione che
rinunziassero a ogni diritto sul pregresso.
Circa 50 lavoratori decisero di non aderire all’accordo e rivolgersi
al tribunale per ottenere tutti i diritti che spettavano loro. La
sentenza, favorevole, di primo grado è stata confermata in appello, e
adesso pende il giudizio in Cassazione.
Ebbene, l’art. 50 del ddl 1167 prevede che, in caso di accertamento
della natura subordinata di rapporti di co.co.pro., il datore di lavoro
che abbia offerto entro il 30 settembre 2008 la stipulazione di un
contratto di lavoro subordinato è tenuto soltanto a pagare un
risarcimento tra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione, e non a reintegrare i
lavoratori. La norma si applica anche ai giudizi in corso, compreso
ovviamente (e principalmente) quello dei lavoratori ex-Atesia, che
vedranno così cancellate di colpo le fatiche e i diritti ottenuti in tre
anni di lotte.
La risposta? Sciopero generale!
In questi giorni si susseguono una serie di interventi critici sul
ddl 1167, specialmente dagli addetti ai lavori, ovviamente nel campo
dell’opposizione. Da più parti (anche il professor Alleva dalle colonne
di Liberazione) si invoca un referendum che abolisca alla radice
l’istituto della certificazione, e si invita a chiedere l’intervento
della Corte Costituzionale in sede di prima applicazione delle nuove
norme. Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero e la responsabile
lavoro Roberta Fantozzi hanno addirittura annunciato uno sciopero della
fame.
Ora, per quanto le norme siano certamente incostituzionali,
altrettanto sicuramente non può essere un referendum, o l’intervento
della Corte Costituzionale, né tantomeno uno sciopero della fame la via
maestra da seguire per bloccare questa controriforma. Si tratta di armi
quantomeno spuntate di fronte a un padronato che ha lanciato
un’offensiva senza precedenti: come affrontare un carro armato con un
bastone.
L’unica possibilità per fermare questo attacco è organizzare una
risposta all’altezza della situazione, mobilitare la classe lavoratrice
italiana e avviare senza esitazioni un percorso che porti al più presto a
un partecipato sciopero generale, con l’obiettivo di scuotere il Paese e
abbattere il Governo più reazionario della sua storia. Prendiamo
esempio dai lavoratori greci!